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Christoph Baumberger
I segni costruiti
Una teoria sulle modalità di simbolizzazione degli edifici


Nel mio intervento, esporrò una teoria sulle modalità di simbolizzazione degli edifici. In fase introduttiva, illustrerò come le costruzioni possano svolgere il ruolo di simboli, anche distinguendosi da quelli paradigmatici. Tuttavia, ciò esige non solo un concetto simbolico sufficientemente ampio, ma anche un’ulteriore modalità di simbolizzazione che affianchi la denotazione e la raffigurazione: la teoria dei simboli di Nelson Goodman, che distingue denotazione, esemplificazione, espressione e riferimento mediato, si presta particolarmente al mio intento.

Denotazione
La denotazione è il riferimento di un simbolo alle cose a cui corrisponde e include denominazione, descrizione e rappresentazione: la maggior parte delle opere edili non ha valore denotativo, ma vi sono interessanti eccezioni. La denotazione può essere fittizia, ambigua o metaforica.
  • I fabbricati che svolgono il ruolo di rappresentazione fittizia intendono denotare qualcosa che non esiste, come ad esempio un drago: essi non sono riconducibili a ciò che denotano (ovvero nulla), bensì alla modalità con cui devono caratterizzarsi come simboli.
  • Un edificio si definisce ambiguo, denotativamente parlano, se dà adito a svariate interpretazioni denotative, ad esempio quando può essere contemporaneamente inteso come rappresentazione di una nave e di un’anatra.
  • Quando un’opera ambigua svolge il ruolo di metafora, la sua interpretazione traslata dipende da quella letterale (ad esempio, l’interpretazione di un tempio a forma di carro come rappresentazione del sole non può prescindere dalla sua lettura quale rappresentazione di un carro). 
Diversamente da quanto accade per le sculture tipicamente figurative, nelle opere costruttive con valenza denotativa poche parti hanno funzione rappresentativa, ovvero vengono raffigurati solo alcuni aspetti del soggetto, in modo poco realistico e difficilmente riconoscibile.

Esemplificazione
L’esemplificazione è il riferimento di un simbolo a una delle sue caratteristiche: un campione di tessuto può descriverne colore e materiale, ma non la sua dimensione, mentre le opere architettoniche possono esprimere la tipologia edilizia, la modalità costruttiva e gli aspetti formali che le caratterizzano. L’esemplificazione si differenzia in multipla, fittizia (pace Goodman), ambigua o metaforica.
  • Le costruzioni esprimono in prima istanza molteplici caratteristiche: singole esemplificazioni possono supportarne altre, in tensione o in equilibrio con le stesse.
  • Nell’esemplificazione fittizia, un fabbricato esemplifica una caratteristica che non gli appartiene (ad esempio, una costruzione in ossatura di calcestruzzo non possiede la peculiarità di essere un’opera in laterizio).
  • Un’opera architettonica è ambigua dal punto di vista dell’esemplificazione se, in diversi sistemi di simboli o nello stesso sottosistema minimale, dà adito a svariate interpretazioni esemplificative, ad esempio quando gruppi sociali utilizzano più sistemi di simboli o una facciata oscilla tra numerose strutturazioni.
  • Un’opera costruttiva svolge un ruolo esemplificativo metaforico, quando esprime la proprietà esemplificata solo metaforicamente (ad esempio, la peculiarità di un grande magazzino di essere “maschile”). 

Espressione
Il concetto dell’esemplificazione metaforica consente l’esplicazione dell’espressione architettonica: un’opera costruttiva esprime una qualità, nel momento in cui la esemplifica metaforicamente quale simbolo estetico. Le costruzioni possono, ad esempio, esprimere emozioni, virtù, idee o valori. 

Riferimento mediato
Denotazione, esemplificazione ed espressione, semplici modi di simbolizzazione, possono essere connessi a una catena referenziale, mentre le allusioni rappresentano un riferimento indiretto a tali catene: nel mio intervento tratterò i riferimenti mediati stilistici, tipologici, locali e culturali.
  • Stilistici: una costruzione allude a un’opera di stile individuale, collettivo, locale o epocale, esemplificando caratteristiche tipiche per edifici di tale stile. 
  • Tipologici: una costruzione allude a un’opera di tipologia funzionale, formale o costruttiva, esemplificando caratteristiche tipiche per edifici di tale tipologia.
  • Locali: una costruzione allude ad aspetti del suo ambiente, esemplificando caratteristiche tipiche di tale ambiente. 
  • Culturali: una costruzione allude ad aspetti del suo contesto culturale, esemplificando caratteristiche tipiche di tale contesto. 

Conclusione
Infine, argomenterò come la teoria simbolica così abbozzata sfugga alla tradizionale obiezione mossa contro le teorie che intendono l’architettura come un linguaggio, fornendo uno strumentario per l’interpretazione delle opere edili molto più ricco rispetto alle semiotiche alternative dell’architettura.





L’architettura come linguaggio: analisi componenziale semiotica dell’architettura secondo Charles Jencks


Semiotica teorica e pratica

Charles Jencks è annoverabile tra i principali rappresentanti della teoria architettonica postmoderna e la sua opera The Language of Post-Modern Architecture, pubblicata nel 1977, può, in un certo senso, essere considerata uno dei documenti teorici fondativi del postmoderno: nel libro, l’autore circoscrive l’architettura postmoderna dal punto di vista storico-culturale, distinguendola dall’architettura moderna e trasponendo all’arte del costruire il concetto di postmoderno proprio della scienza letteraria.

Alla base della visione di Jencks, si colloca la semiotica, da lui intesa come scienza fondamentale per eccellenza, avente per oggetto l’analisi dei segni e dei processi segnici di ogni tipologia che, secondo il pensiero dominante, sono coinvolti in ogni nostra azione. Se vogliamo comprendere a cosa ci stiamo di volta in volta approcciando, nell’atto di relazionarci a qualcosa, dobbiamo intendere i processi segnici in virtù dei quali ci poniamo rispetto a questo qualcosa: analoga considerazione vale naturalmente anche per l’architettura, per la quale Jencks propone una “archisemiotics” [Charles Jencks, "The Architectural Sign", in Signs, Symbols, and Architecture, ed. da Geoffrey Broadbent, Richard Bunt e Charles Jencks (New York/Londra: Wiley, 1980), 74].

Per dimostrare i principi e i metodi semiotici, su cui Jencks sviluppa la sua teoria, tralascerò due aspetti dell’approccio da lui adottato: innanzitutto, in questo contributo non verranno esplicitamente tematizzati gli aspetti storico-culturali architettonici della visione jencksiana e, in seconda istanza, verrà trascurato il fatto che la semiotica non costituisce una struttura unitaria: nel suo sviluppo, vi sono stati e vi sono molteplici visioni, metodi, modelli e teorie, tra cui le diverse linee di semiologia e semiotica, gli approcci generali o incentrati sulla lingua e i modelli segnici diadici e triadici. Anche la classificazione storica e sistematica di Jencks non sarà, per ora, oggetto della presente trattazione.

Sarà, invece, esposta e indagata la tecnica semiotica jencksiana mediante alcuni esempi da lui riportati in The Language of Post-Modern Architecture, assunti a punto di partenza di una discussione in merito all’idea e al valore della prospettiva semiotica sull’architettura da lui proposta. 

L’approccio semiotico di Jencks

Nella concezione di Jencks, la lingua rappresenta il sistema segnico paradigmatico per eccellenza, ovvero “language dominates all sign system” [Ibid.], permettendogli di porre l’architettura in diretta analogia con essa, riconcettualizzando, dal punto di vista semiotico, come solo l’architettura, anziché sulle parole, si basi su “visual codes” [Charles Jencks, The Language of Post-Modern Architecture, 4a ediz. (New York: Rizzoli, 1984), 40]. Così come esistono innumerevoli lingue, parlate e utilizzate da svariati gruppi di persone in diversi periodi storici, anche in architettura numerosi insiemi di soggetti si sono avvalsi di altrettanti codici in epoche distinte: Jencks definisce tali gruppi “semiotic groups”, descrivendoli come “usually a complex mixture of ethnic background, age, history and locale” [Ibid., 209]. Secondo l’analogia preminente di Jencks, ognuno di questi gruppi semiotici ‘parla’ il proprio ‘linguaggio architettonico’.

In base al pensiero jenksiano, i diversi linguaggi architettonici sono, in linea di principio, completamente trasparenti, tanto che “[w]e can make a componential analysis of architectural elements and find out which are, for any culture, distinct units” [Ibid., 52]: il compito dell’analisi componenziale semiotica consta nel ricercare le espressioni basiche di un linguaggio architettonico, associandovi i contenuti che esse definiscono. L’idea che si cela dietro tale concezione, intende la lingua come la sostanziale relazione tra qualcosa che definisce, il significante, e qualcosa che viene definito, il significato. Secondo Jencks, così come un segno linguistico si relaziona a un significato specifico, a un dato elemento architettonico, ovvero a un’espressione costruttiva, corrisponde un significato architettonico: “architecture must have a signifying reference” [Ibid., 112].

Partendo da tale concezione, Jencks ritiene che la teoria dell’architettura debba servirsi della archisemiotics, per costituire corpora architettonici di diversi gruppi semiotici, da intendersi come ampi lessici, in cui, per i singoli insiemi, sono riportate le espressioni architettoniche corrispondenti ai vari significati. Disponendo di tali lessici, secondo Jencks, anche la codifica doppia e multipla dell’architettura si lascia decifrare nella composizione pluralistica del postmoderno.

Teoria e prassi dell’architettura

Tra le varie questioni che potrebbero emergere a seguito dell’illustrazione degli esempi che Jencks utilizza per l’applicazione della sua analisi componenziale teorica dell’architettura, vorrei sceglierne due: la prima s’interroga sull’eventualità e la modalità di mettere in relazione l’analisi componenziale semiotica con la creazione e la realizzazione architettonica, investigando il ruolo che la medesima può svolgere nella progettazione di un elemento nuovo, partendo dall’assunto che un “architectural sign can be completely analysed a posteriori, in a context” [Jencks, "The Architectural Sign", 102]. La seconda questione, invece, indaga se e in quale misura possa essere sostenuta l’analogia tra lingua e arte del costruire: perché dovremmo partire dal presupposto che in architettura, analogamente a quanto accade per la lingua, è possibile distinguere tra espressione e significato? [Naturalmente, tale questione acquisisce ulteriore rilievo considerando gli svariati argomenti linguistici e della filosofia del linguaggio, secondo cui anche per quanto concerne la lingua non è possibile categoricamente distinguere tra espressione e uso]





I segni architettonici e i loro significati


L’analisi e l’interpretazione di segni, insiemi e processi segnici nelle correlazioni della comunicazione di ogni genere sono oggetto della ricerca semiotica e, proprio nell’attività semiotica con l’architettura, analisi e interpretazione di elementi, situazioni e oggetti architettonici assumono, di conseguenza, un ruolo centrale. Sebbene la teoria interpretativa passi talvolta più palesemente in primo piano rispetto alla pratica dell’interpretazione, è possibile individuare applicazioni esemplari da cui si evincono tipiche procedure di un’interpretazione d’orientamento semiotico. In generale, è possibile affermare che, dal punto di vista semiotico dell’architettura, vengono gettate le basi per un concetto di segno, su cui possono essere sviluppate le rispettive interpretazioni, come p.e. la seguente concezione “triadica”, fondata sui principi comuni di:  

                                       1. forma                     
                                          (materiale, struttura, forma)     
 
    2. funzione                                        3. significato 
       (fisiologica, psichica, spirituale)        (emotivo, pratico, ideale)

In questo modello, il lavoro d’analisi e interpretazione consiste nell’individuazione delle relazioni tra forme, funzioni e significati dei segni architettonici e, se possibile, nel loro raggruppamento in una sintesi, in cui un ruolo importante è assunto dalla differenziazione dei singoli aspetti della rispettiva relazione con il segno. Se nella moderna architettura classica il percorso verso il significato deve necessariamente partire dalla funzione per passare attraverso la forma, nell’architettura tardo e post-moderna questo rapporto è più blando e la forma talmente autonoma, da comunicare significati indipendentemente dalla funzione o, talvolta, addirittura contro la funzione stessa; è il caso particolare degli edifici dalle funzioni pubbliche o artistiche, anche se si comincia notare in modo crescente anche negli immobili funzionali di qualsiasi genere.

Per il principio interpretativo semiotico vengono presi in considerazione tre punti di vista.
  • Tutti gli elementi architettonici, dalla forma nel suo insieme al più piccolo dettaglio, possono essere interpretati come segno, a patto che siano identificabili intersoggettivamente con un supporto fisico  e che esista un “ambito di discussione” culturale, cui l’interpretazione possa allacciarsi. Nell’architettura quest’“ambito di discussione” viene tracciato in modo sostanziale dalla storia dell’architettura e dell’arte, ma anche dalla cornice teorico-culturale e sociale delle discussioni. I confini della competenza in questo campo coincidono con i confini dell’interpretazione.

  • Un altro tema centrale della semiotica architettonica è la determinazione e l’interpretazione dei “codici”, che possono emergere dalla forma specifica di un oggetto. Secondo Eco, un “codice”  è un sistema o un sistema parziale di segni, che manifesta una relazione ordinata tra segni, significati e interpretazioni e che si basa su convenzioni o norme sociali. Nell’architettura, si distinguono codici iconologici, tipologici, stilistici, regionalistici, individualistici, ecc. Secondo Jencks, un ruolo particolare è svolto dalla differenza tra codifiche elitarie e popolari. La definizione di “codici” pone il singolo oggetto davanti a un orizzonte di significati, che mette in luce collegamenti più estesi con oggetti e processi culturali. Nell’architettura tardo e post-moderna, sono le speciali miscele e sovrapposizioni di diversi codici a condurre verso significati più complessi e stratificati.

  • Anche l’antico tema di un “simbolismo dell’architettura” viene portato avanti dalla semiotica e collocato in un rapporto più rigoroso: i simboli sono segni che hanno un significato particolarmente radicato all’interno dei processi sociali, culturali e storici e che sono espressione d’importanti contenuti ideali in forma concentrata. Nella sua “Logik der Baukunst”,  Christian Norberg-Schulz ha definito il “simbolismo culturale” uno dei compiti principali dell’arte architettonica, il cui scopo è quello di fare una sintesi tra un incarico architettonico, i contenuti ideali in esso racchiusi e le adeguate forme culturali tramandate. Tale sintesi deve basarsi su una “similitudine strutturale” tra poli interessati. Il risultato dovrebbe tradursi in “simboli culturali” architettonici che, insieme ad altri oggetti culturalmente pregevoli, diano origine a un “milieu simbolico” (o, nella nostra terminologia, “un ambito di discussione”) di una società, i cui membri comunicano e si alleano su valori e significati fondamentali. L’identificazione di tali simboli culturali rappresenta uno dei compiti primari della semiotica architettonica.

Questi principi verranno illustrati e chiariti nell’intervento, oltre che dimostrati con alcuni esempi.





“Above the trash…”


Il design reclama attenzione e invia messaggi attraverso gli oggetti, sfidando, quale “linguaggio delle cose”, la lingua in quanto tale: la sua svolta linguistica, se mai si fosse verificata, ha una valenza minore se comparata alla portata oggettiva e al potere soggettivo che racchiude in sé.

Un esempio di come il design pubblicitario sia andato oltre la lingua, minandola alla base, ci porta a menzionare la BBC, che ha recentemente fatto il suo ingresso nel mercato televisivo americano e, nella promozione dei suoi programmi, ha puntato in modo particolare su qualità e raffinatezza: tra gli slogan-chiave adottati per la campagna spicca “Above the trash…”, che si ritrova sui pannelli applicati ai cestini presso le banchine delle stazioni, lungo una delle principali linee di traffico pendolare tra New York City e New Haven. Ovviamente, l’espressione di per sé è chiara e anche la presenza dei bidoni della spazzatura cela ben pochi segreti, ma la vera e propria collocazione dello slogan sui cestini incide sulla natura di entrambi. Se da un lato c’è l’immondizia, dall’altra c’è qualcosa che va oltre: si tratta di un prodotto di design, non semplicemente di un’asserzione o un fatto.

Un altro esempio di trasformazione del design degli oggetti e, in maniera più incisiva dell’azione, ha raggiunto un pubblico globale attraverso i prodotti della Apple. iPod, iPhone e iPad sono paradigmi del design contemporaneo, essendo in grado di rendere “tangibile” tutto ciò che si può fare mediante essi: icone, cifre, lettere e simboli vengono attivati con un semplice tocco, come se la sfera dei segni avesse assunto una dimensione terrena, dissolvendosi alla stregua di un fiocco di neve a contatto con la pelle. 

La superficie rappresenta il livello operativo di ogni atto e, poiché l’azione si esaurisce in una profondità virtuale, il design ricrea uno dei misteri dell’immaginario comune, rimandando alla figura della sirena dal volto umano e la coda di pesce: come lei, il design incanta, disorienta, sfugge e, forse, distrugge. Tutto ciò che concerne l’iPhone provoca assuefazione, divenendo parte di due mondi, la profondità e l’aria, la compattezza e la morbidezza, la semplicità e l’impenetrabilità: il suono è quello della sirena che porta il remoto nell’accessibile, consumando il tempo e conservando memoria di quanto perduto. Tutto quello che si materializza, in un lasso di tempo ormai ridotto al minimo, resta completamente intangibile e le sue capacità di “fluttuare”, “librarsi”, “espandersi” e “contrarsi” sono indicatrici di uno stato profondamente immateriale che può essere colto solo in superficie.

Ora, l’architettura si riappropria di un ruolo inclusivo, come accadde nel Rinascimento, quando divenne la nave ammiraglia di tutte le arti visive. Innegabilmente fatta di materia, necessariamente modellata in ogni sua parte e definita in ogni dettaglio, l’architettura contempla il “senso situato” di tutti i componenti e della loro profondità materiale e, oggi, si propone come l’unica pratica in grado di unire sostanza e significato, al di là dei loro rispettivi domini. Dopo un lungo periodo trascorso dissipando l’arte della sua inesauribile fonte, l’architettura può avere di fronte a sé più “svolte” di quante non ne abbia già affrontate.




L’edilizia come simbolo: l’architettura degli anni ‘30 a Bolzano


Bolzano è una delle città in cui, negli anni ‘30 e ‘40, l’Italia ufficiale di Mussolini ha edificato sistematicamente: nel giro di pochi anni, da un piccolo centro urbano di 25.000 anime è sorta, a seguito dell’insediamento di grandi industrie, una città di 100.000 abitanti. La trasformazione, che ha visto una piccola cittadina di provincia dell’Austria divenire, dopo la Prima Guerra Mondiale, una città italiana di confine dal carattere fortemente simbolico, si nota proprio nell’architettura. 

Per lungo tempo, l’architettura di quel periodo è stata vista dalla popolazione altoatesina tedesca come simbolo di oppressione ma, con l’avvento degli anni ‘80, vennero rivalutate le qualità formali dell’edilizia dell’epoca (vedi Oswald Zoeggeler, “Architektur für ein italienisches Bozen”). A prescindere da alcune opere, come il patetico Monumento alla Vittoria di Bolzano, predominano le forme sviluppate del razionalismo del Bauhaus. Tale architettura, con tutta la brutalità con cui ha avuto luogo la trasformazione, vanta qualità ragguardevoli, ad esempio di natura urbanistica: al centro storico medioevale, con i suoi Portici, viene contrapposto, al di là del Talvera, un nuovo porticato in Corso Libertà, monumentale e consapevolmente moderno, mentre imponenti complessi vengono realizzati ad esempio in Piazza Vittoria, che ancor oggi evoca i dipinti metafisici di Giorgio Morandi, o in Piazza del Tribunale, che sorge sull’asse rivolto a sud di Corso Italia e Via Roma. 

L’architettura di quest’epoca è manifestazione di un società, le cui élite si collocano al vertice del progresso, proiettandosi in epoche ancor più gloriose, ma anche espressione di come il singolo, in tal senso, rivesta un significato esiguo. Se i portici della città si rifanno a una dimensione umana, quelli di Gries degli anni ‘30 vanno consapevolmente oltre. L’individuo collocato al di sotto di essi, che del resto non sono tondi ma ad angolo retto, appare come una figura minuta: sono i tempi a essere grandiosi. Anche entrando nel dettaglio, le opere sono poderose: i portoni di accesso, le trombe delle scale con i gradini in marmo e i corrimano arcuati, le porte delle abitazioni realizzate in solido legno con cornici in pietra, la struttura delle sontuose abitazioni. Da ogni aspetto traspare stile, che si fa tanto più visibile se confrontato con l’architettura generalmente amorfa del secondo dopoguerra. 

L’architettura italiana degli anni ‘30 e ‘40 si caratterizza, non solo a Bolzano, per la sistematica integrazione di sculture spesso ritraenti gesta eroiche che, nell’arte del costruire, si manifestano come monumentalità. Analogamente a quanto accade nel Bauhaus, si verifica un ricongiungimento delle arti sotto la supremazia dell’architettura, come ad esempio in Piazza Vittoria, laddove la scultura viene completata da asserzioni ideologiche incise nella pietra, attraverso le quali l’architettura si carica di contenuti impliciti, nella misura in cui appartengono all’architettura del sintomo, al design e all’arte.

Particolarmente degna di menzione è la storia di Piazza del Tribunale: su di essa si ergono, uno di fronte all’altro, il Tribunale e l’edificio allora concepito come casa del fascio, oggi sede degli Uffici finanziari statali, il cui imponente bassorilievo, che racconta la storia del partito fascista in due strisce sovrapposte, era all’epoca annoverabile tra i più grandi, se non il più grande d’Europa: al centro del frontone spicca la figura di Mussolini a cavallo, affiancato dalla celebre frase “Credere, obbedire, combattere”. L’opera racconta le più importanti tappe lungo la strada del potere e gli atti compiuti con la sua conquista (ad es. la guerra di Abissinia). È interessante notare come, con Hans Piffrader, un artista sudtirolese di madrelingua tedesca, si è scelto di eroicizzare una politica in palese conflitto con la maggioranza germanofona. Il modello dell’autore, certamente non l’unico artista ad aver scelto il dittatore Mussolini come soggetto della sua opera, è la Colonna Traiana a Roma. Il rilievo, in realtà, venne ultimato solo nel 1957, ovvero a quasi un decennio e mezzo di distanza dalla caduta del Duce, quando, in occasione della visita di un eminente personaggio da Roma, parve inopportuno proporre una facciata incompleta e vennero così integrate le lastre mancanti, nel frattempo depositate in un magazzino. L’opera è espressione del rapporto tra arte e potere e, come accade in un certo qual modo per il Monumento alla Vittoria, è tuttora oggetto di discussioni e proteste: in un certo senso, si può parlare di un “sintomo” assolutamente attuale, espressione dello stato di salute della società altoatesina.

Circa due anni fa, sembrano essersi creati i presupposti per un momento politico favorevole: la Giunta Provinciale ha ottenuto dall’allora Ministro della Cultura l’autorizzazione, a lungo ritenuta impensabile, di storicizzare il monumento, con l’intento, almeno stando alla spiegazione ufficiale, di opporsi all’esaltazione del fascismo. La decisione ha scatenato la rivolta di parte dei mezzi di comunicazione e della popolazione, i quali sostengono che l’intenzione sia in realtà quella di spegnere i riflettori sulla storia italiana dell’Alto Adige. L’iniziativa dell’Amministrazione d’indire un concorso artistico di idee per il depotenziamento del rilievo ha raccolto numerose proposte di artisti altoatesini che, con la loro partecipazione, hanno palesato, seppur indirettamente, la convinzione che un’opera celebrante il fascismo debba essere celata. Diversamente da quanto proposto da una cerchia di storici, essa non dovrebbe restare visibile, né essere storicizzata mediante interventi comunicativi, incontrando così il favore tanto della popolazione germanofona che di quella italofona dell’Alto Adige. I partecipanti, con la loro adesione, dimostrano inoltre di non avere timore nel sovrapporsi, mediante un loro intervento, all’opera di un altro artista. Questo per quanto concerne l’arte del sintomo.




Oltre i segni: strategie di norme comportamentali e negoziazione nella comunicazione di design della metropolitana di Tokyo

“Vi preghiamo di esimervi dal truccarvi in treno” Manner poster, agosto 2009


Il presente intervento intende indagare il funzionamento e l’efficacia del design visivo nella vita urbana di ogni giorno, analizzando le strategie di norme e negoziazioni comportamentali, utilizzate da un particolare corpus di manifesti ideati per la rete metropolitana. Nel settembre del 1974, l’azienda Tokyo Metro, che gestisce la ferrovia sotterranea, fece stampare una serie di cartelloni che invitavano, con approccio umoristico, a rispettare le “buone maniere” presso le stazioni e sui treni in servizio nella capitale giapponese. Il nome assegnato alla campagna fu Manner Poster: da allora, l’iniziativa è stata ripetuta ogni mese, mantenendo il formato originale, seppur con immagini e messaggi diversi.

Le tre edizioni che vanno dal 2008 al 2010 colpiscono per la loro ironia e il forte impatto visivo: realizzati dal designer grafico Yorifuji Bunpei nello stile delle strisce fumettistiche, i manifesti ritraggono, utilizzando i colori bianco, nero e giallo, situazioni narrative interne alle stazioni e ai treni della metropolitana, dove una o più persone svolgono azioni considerate “contrarie alle buone maniere”, sotto lo sguardo attonito degli altri passeggeri. Le immagini rimandano a un’ampia varietà di analoghe situazioni, dall’occupazione di posti con precedenza, riservati a persone anziane o donne in stato interessante, al precipitarsi a bordo mentre le porte si stanno chiudendo, sino al gettare a terra fazzoletti usati o a bloccare l’entrata con valige e zaini. Ma la gamma di comportamenti poco consoni si amplia progressivamente, includendo azioni quali consumare cibo sui treni, truccarsi, usare il telefono cellulare, scrollare l’ombrello bagnando gli altri passeggeri, fare ginnastica e ubriacarsi. Le immagini ritraggano sequenze narrative paradossali e iperboli visive che “esagerano” gli atti considerati sconvenienti, enfatizzando le conseguenze negative che questi hanno sugli altri passeggeri. I soggetti “irrispettosi” si distinguono visivamente dagli altri viaggiatori e dall’ambientazione ritratta, mediante l’uso di colori, collocazione e fattezze distinti, con l’intento di accentuare il loro comportamento disdicevole. Le vittime, dipinte con grandi occhi sporgenti, sono attori attivi, che esprimono il loro dissenso attraverso uno sguardo fisso, impersonando un universo di valori che è necessario interiorizzare, al fine di garantire il buon funzionamento delle relazioni sociali. I messaggi riportati sui manifesti, del resto, non lasciano adito a dubbi sulla funzione a cui assolvono. “Per favore, fatelo a casa”, recita un cartellone raffigurante un divoratore di ramen istantaneo (una zuppa di tagliatelle), “per favore, fatelo in ufficio”, declama invece la scritta che accompagna un uomo d’affari impegnato a prendere appunti durante una conversazione telefonica in treno. I Manner Posters sono innanzitutto prescrittivi e, in seconda battuta, proscrittivi, ovvero, indicano quello che “si deve fare” per rendere comprensibile ciò che “non si deve fare” usufruendo della metropolitana. I manifesti si caratterizzano per messaggi scritti (“Per favore, fatelo a casa”) che, secondo lo stesso Yorifuji, veicolano “la frustrazione repressa del pendolare tipico”, emotivamente toccato da atteggiamenti irrispettosi: i cartelloni, in altre parole, ricreano una forma identitaria dei passeggeri, sottoponendo ciascuno di essi al giudizio/disapprovazione degli altri utenti, indicando situazioni e luoghi appropriati allo svolgimento di determinate azioni. Essi sono “regolatori di vita sociale”, che caricano di una valenza positiva o negativa i comportamenti adottati ogni giorno, sulla base della loro localizzazione spazio-temporale.

Un’analisi dell’“Etichetta in metropolitana” e del suo sviluppo nel corso delle tre edizioni della campagna, rivela una particolare differenziazione linguistica e visiva di tale identità, imperniata su modelli comportamentali e di socialità profondamente distinti l’uno dall’altro, in rapporto alle origini giapponesi o straniere dei passeggeri a cui si rivolge l’azione persuasiva dei cartelloni. Tenterò altresì di dimostrare come, da un lato l’interazione tra attori dei manifesti e attori umani tenti di definire specifici regimi di enunciazione politica (Latoru 1999), dall’altro, come le versioni parodistiche dei Manner Posters, che non esitano a proliferare su siti internet e riviste giapponesi, portino anche a procedimenti di negoziazione dei valori e degli obblighi sociali prescritti. 





Roland Posner
Le fondamenta semiotiche del design 


Il design consta nella creazione di oggetti, con lo scopo di veicolare informazioni sugli stessi, mediante le loro caratteristiche percettibili. È possibile distinguere tra processo creativo (ad esempio l’opera del designer, l’attività di design), risultato creativo (l’oggetto di design con le sue caratteristiche percettibili) e processo comunicativo (l’esperienza di design). 
Il fatto che gli oggetti di design veicolino informazioni su se stessi è una questione scarsamente dibattuta tra i teorici del design, sebbene si discuta ampiamente di quale natura possano essere tali informazioni o come queste debbano essere generate.
La tesi più diffusa, a questo proposito, sostiene che un oggetto di design sia un bene parlante, che comunichi i suoi messaggi mediante un linguaggio delle cose di una certa tipologia e che il contenuto di tale comunicazione risulti dallo spettro delle possibili modalità d’impiego dell’oggetto stesso. Alla base di tale asserzione si collocano i seguenti modelli semiotici, la cui caratterizzazione e analisi saranno oggetto del presente contributo.

1. Il modello codice considera gli oggetti di design parole e interpreta le loro informazioni come significati: esso presuppone l’esistenza di un linguaggio delle cose, che suddivide gli oggetti in tipologie, attribuendo in modo convenzionale a ciascuna di esse una categoria che la contraddistingue.
In ogni membro appartenente a una data cultura, che s’imbatte in un oggetto di una determinata tipologia, verrà richiamata la relativa categoria: ciò vale sia per gli oggetti naturali (come ad esempio ‘rocce’, ’alberi’, ‘cavalli’) che per gli artefatti (ad esempio ‘case’, ‘scarpe’, ‘macchine da scrivere’).
Il vantaggio di un modello di questo tipo, riconducibile per lo più al linguista Saussure (1914), è dato dall’assunzione di un sistema di convenzioni culturali specifiche che ammettono una ripartizione tipologica degli oggetti (crf. Posner 1988 e 1992). Lo svantaggio, invece, consiste nella rigida categorizzazione, così come nell’incapacità di essere all’altezza del carattere comunicativo degli oggetti di design.

2. Il modello comunicazione intende gli oggetti di design alla stregua di una manifestazione comunicativa che veicola all’utente le informazioni di colui che li ha realizzati. Esso presuppone un produttore dotato di un’intenzione creativa, che vuole far comprendere all’utilizzatore tale intento.
Ogni individuo, che s’imbatte in un dato oggetto di design, si vede coinvolto in un dialogo in cui gli viene richiesto di desumere l’intenzione del produttore dalle caratteristiche percettive dell’oggetto, utilizzando lo stesso in modo conforme. Ciò, tuttavia, vale (oggi) non (più) per gli oggetti naturali, che non hanno un produttore, bensì solo per gli artefatti quali case, scarpe e macchine da scrivere.
Il vantaggio di tale modello, che spesso viene ricondotto ai filosofi analitici come Grice (1957), è dato dall’esattezza con cui ogni singolo dettaglio dell’oggetto di design può essere compreso e correlato all’intenzione complessiva. Lo svantaggio consta, invece, nella finzione dialogica, che rende le casuali caratteristiche del produttore e la sua biografia parte del processo di comprensione per la comunicazione dell’oggetto di design.

3. Il modello funzione considera l’oggetto di design uno strumento e un mezzo per la realizzazione di un fine, senza includere un produttore e gli scopi che si è prefisso. Esso presuppone solo l’esistenza di potenziali utenti che perseguono determinati obiettivi operativi, appurando in che misura l’utilizzo dell’oggetto di design possa contribuire alla realizzazione dei loro intenti e in che modo lo stesso debba essere impiegato.

Ogni potenziale utilizzatore è libero nella scelta dei propri obiettivi e può assumere a punto di riferimento gli scopi di altri individui, adeguarsi a determinate tradizioni o ideare i fini a lui più confacenti. Egli può anche eludere i funzionamenti noti dell’oggetto di design e, conformemente alle sue momentanee esigenze, “vedere”, ad esempio nella forma di una molletta da bucato, uno strumento per richiudere un sacchetto di alimenti (o individuare una gruccia nello schienale di una sedia, riconoscere in un sottobicchiere un mezzo per stabilizzare un tavolo traballante e ancora, identificare in un sacchetto di plastica una protezione impermeabile da collocare su un sedile bagnato: vedi Bürdek 2005:270).

Tali informazioni concernono lo spettro dei possibili impieghi di un determinato oggetto di design in una data situazione e non si fermano di fronte alla riconversione d’uso di tale oggetto. Le relative comunicazioni vengono rese accessibili ai potenziali utenti mediante un ragionamento che individua la risoluzione di un problema correlato alla situazione (vedi l’“affordance” nel senso di Gibson 1979). Tali messaggi sono meno inflessibili rispetto a quanto consentito dal modello codice e meno dipendenti dagli individui in considerazione di ciò che richiede il modello comunicazione; essi adempiono alla funzione degli oggetti di design, condividendo in modo adeguato informazioni su se stessi. Tuttavia, il contenuto della comunicazione, in questo contesto, si riduce all’utilizzabilità dell’oggetto di design: qui risiede anche il principale limite del modello funzione, in cui i tradizionali significati dei simboli non sono esplicabili, a meno che il concetto di funzione non venga utilizzato in senso molto ampio. 

A seguito dell’analisi dei modelli semiotici, si prospetta un confronto tra le circostanze della comunicazione degli oggetti di design e le circostanze delle normali comunicazioni verbali. Ne risulta che: (i) gli oggetti di design non parlano, quindi non necessitano di una lingua, (ii) gli oggetti di design non comunicano, quindi non esigono una comprensione delle intenzioni comunicative e, in termini positivi, (iii) gli oggetti di design suggeriscono solo determinate deduzioni su se stessi e non richiedono altro che un’interpretazione di segnali e segni.




COSA, METÀ COSA, NON-COSA, INTRACOSA, SOVRACOSA
Sul design visibile e invisibile


Con design è inevitabile intendere non solo l’efficace forma simbolica dei prodotti, ma anche l’invisibile formazione dei profili esperienziali dei suoi utenti. Nell’oggetto, così come nel suo fruitore, esiste infatti un design visibile e invisibile. 

Questa tesi di partenza crea il contesto per riflessioni, grazie alle quali si può esercitare il pensiero design-filosofico e prendere distanza dalle azioni quotidiane. Si tratta qui dei rapporti tra oggetto-design e soggetto-utente. Nessuno dovrebbe farsi spaventare dalla pretesa di una riflessione design-filosofica, dal testarla a livello pratico e dal porsi nel ruolo dell’osservatore che percepisce se stesso e gli altri in campi d’azione quotidiani determinati dal design, chiedendosi: cos’è qui il design? Che caratteristiche visibili e invisibili accomuna in sé? Cosa se ne fa del suo utente? Che esperienze veicola?  

Senza dubbio, avvalendosi della sua elaborata logica filosofica come strumento, un ontologo fondamentale come Heidegger si chiederebbe cos’è un oggetto (o un oggetto-design) o cosa comporterebbe la “cosalità della cosa”. Noi, invece, possiamo fare ricorso alla nostra opinione ed esperienza. Ai profani è consigliato un metodo praticabile di approccio al design nella quotidianità: cosa vuole questo design e cosa provoca?

Come utenti pensanti ed esperti nella manipolazione, possiamo chiederci: quali forme di condizionamento viviamo oggi sulla nostra pelle? Quali esperienze si avvicendano tra concretezza e virtualità? Cosa significa venire collocati culturalmente attraverso la tecnica e il design?

La moderna tecnologia ha o è un design proprio così forte, da far temere al filosofo Günther Anders, già a metà del 20° secolo, che “la tecnologia come soggetto della storia” avrebbe inabilitato i suoi utenti. Questa era un’ipotesi alla quale oggi si deve reagire in modo riflessivo.

Dalla pratica della relazione con le cose, le metà-cose, le non-cose, le intracose e le sovracose emergono domande in merito al nostro posizionamento negli attuali ambiti comportamentali ed esperienziali prodotto-culturali. Il seminario tematizza questi ambiti, allo scopo di stimolare l’esercizio pratico fenomenologicamente attribuito. Impulsi in tal senso si possono evincere dalle parti 2-6 della relazione.

Struttura contenutistica
  • Collocazione culturale
  • Gesti
  • Rituali
  • Immagini, icone, idoli
  • L’oggetto riabilitato nel fetish
  • L’osservatore interessato
  • (opzionale): La vita segreta degli oggetti


 


Tra sintomo e segnale: 
Il concetto di traccia di Derrida letto da Peirce 


La mia conferenza verte sullo sviluppo di un’interpretazione pragmatico-semiotica del concetto di traccia, partendo da un’osservazione di Derrida presente nella sua Della grammatologia, in cui afferma: "[...] la traccia, di cui parliamo, è poco naturale (non è una caratteristica, il segnale naturale o l’indizio nel senso husserliano) quanto culturale, poco fisica quanto psichica, poco biologica quanto spirituale” [Jacques Derrida, Grammatologie (1967), Francoforte sul Meno 1983, p.83].  

Un tale concetto di traccia è difficile da immaginare, come desidero dimostrare ricorrendo alla semiotica peirciana. Nella teoria del segno di Peirce, che distingue tra simbolo, indice e icona, il simbolo presenta un’analogia funzionale con il signe saussuriano. Secondo Peirce, il simbolo è un ‘segno generico’ che dipende da una convenzione (convention), un’abitudine (habit) o una disposizione naturale (a natural disposition) (CP 8.335) [Charles Sanders Peirce, Collected Papers of Peirce, volumi I-VI, editi da Charles Harsthorne e Paul Weiss, volumi VII e VIII, editi da Arthur W. Burks, Cambridge, Mass. 1931-1958. Nel testo viene citata l’annotazione decimale]. Quali esempi di segno simbolico, Peirce menziona una parola, una frase, un libro o un argomento (CP 5.73). 

In contrapposizione al simbolo, l’indice crea un collegamento tra due eventi singoli. L’indice “marks the junction between two portions of experience” (CP 2.285), rivelando così un riferimento con la realtà, per esempio, il sintomo di una malattia. Il segno indice ha, in qualsiasi forma, “a real connection with its object” (CP 5.75). In un altro caso, questo ‘collegamento’ viene contraddistinto come referenziale: gli indici “refer to individuals” e orientano l’attenzione sul referente “they direct the attention to their objects” (CP 2.306). Per esempio, un dito indice puntato. A differenza dell’indice, l’oggetto cui si riferisce l’icona, non deve necessariamente essere presente. Un’icona può essere una rappresentazione o un diagramma, può essere legata a un oggetto, ma anche solo attraverso una similitudine.

Alla luce di questi tre aspetti del segno effettuerò un’ulteriore differenziazione del segno-indice, ovvero tra genuino e degenerato: gli indici genuini sono parte di una motivata “existential relation” (CP 2.283), determinata da causalità o “contiguità naturale” (CP 2.306). In questo modo, i sintomi hanno giustificazione causale (CP 8.335): da essi si evince la loro involontaria e motivata connessione a ciò cui rimandano. L’effetto epistemico di un indice genuino consiste nella doppia imputazione che sia componente di una relazione causalmente motivata, ma non intenzionale. Questa relazione esistenziale a un oggetto è il presupposto per cui il sintomo viene indicato come “indizio naturale”. A differenza dell’indice genuino, quello degenerato non è originato causalmente, ma è un indicatore referenziale: "a proper name without signification, a pointing finger" (CP 5.75), un’indicazione non proposizionale dunque, che non esprime altro che “là” (CP 3.361).

Sulla scorta di questa differenziazione, nella mia relazione metterò in discussione due pensieri centrali di Deridda: il concetto di traccia e quello di scrittura. Per prima cosa, in Della grammatologia, Derrida parla del “gioco della scrittura” che considera “un divenire immotivato della traccia” [Derrida, Grammatologie, p.87]. 

Quindi, con il suo saggio “Signatur Ereignis Kontext”, delinea una diversa dinamica che, secondo lui, fa parte della “struttura dello scritto stesso”: l’iterabilità nel senso di ripetibilità del segno. L’iterabilità del segno diviene visibile così che ogni segno “può essere citato tra virgolette” [Jacques Derrida, “Signatur Ereignis Kontext”, in: Limited Inc, Vienna 2001, pp. 15-45, p.32]. Ecco cosa afferma Derrida: 

“A causa della sua sostanziale iterabilità, un sintagma scritto può essere estrapolato dalla concatenazione in cui è espresso o collocato, senza perdere tutte le possibilità di funzionamento o, per la precisione, tutte le possibilità di ‘comunicazione’. Gliene si può eventualmente riconoscere altre, iscrivendolo o innestandolo in diverse catene [Ebd]”.

La domanda, che emerge osservando in particolare questo secondo passaggio, è la seguente: che collegamento esiste tra ‘corrispondenza alla citazione’ e indessicabilità? 
Che segni indice sono le virgolette e che forma d’indessicabilità troviamo nelle ‘tracce di scrittura’? Le virgolette sono segnali, quindi indici degenerati, mentre le tracce di scrittura una forma particolare di sintomi, ossia indici genuini?





Segreteria del convegnoManuela Degasperi
Stanza SER F 5.02
piazza Università, 139100 BolzanoItalia
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Facoltà di Design e Arti - Segreteria
piazza Università, 139100 BolzanoItalia
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Orario d'apertura:Lunedì, martedì, giovedì e venerdì: 09:00 - 12:00
mercoledì: 10:00 - 12:00
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